ANXIETÉ di Roger Dubut
L’angoscia è uno stato psichico cosciente caratterizzato da un intenso sentimento di ansia, da una paura senza nome le cui cause sono per lo più apparenti e non immediatamente individuabili. Per tale motivo l’angoscia non è semplicemente minacciosa, ma talvolta anche catastrofica per l’individuo che la vive. Le mani dell’angoscia sono mani che si combattono tra loro perché è l’uomo che combatte contro la sua stessa incapacità di vincere. Nella scultura di Dubut le mani si spingono l’una contro l’altra intrecciandosi in maniera disordinata come due pugili in una situazione di stallo. Sono mani che vogliono farsi del male come per volersi punire per qualcosa di imprecisato in un contesto anch’esso indefinito.
Mani l’una contro l’altra in lotta, che si contorcono e si torturano a vicenda. Quasi un’icona della lotta universale della vita, quella del destino dell’uomo alle prese con sé stesso. Mani con le dita flesse che spingono sul viso, sulla guancia quando prevale il sentimento melanconico, sugli occhi quando vi è un senso di autoflagellazione. Nell’arte moderna si ritrovano spesso nei disegni e nei dipinti di Egon Schiele, a proposito dei quali Emilio Tadini scrive: “Mani intrecciate, contorte; mani tese, artigliate; mani disarticolate, lunghe; mani dalle dita ossute che posano nella figura di una agitazione irresistibile; mani rigide, desiderose; mani sconvolte, danzanti; mani valide; mani che soffrono. Le stesse mani che ritroviamo nelle fotografie che ritraggono Schiele. Quelle pose lì, artificiose, precise e ostinate. Simili a quelle che egli impone ai modelli dei suoi ritratti. È come se le mani di Schiele mettessero insieme una specie di alfabeto muto. Come se quelle mani volessero davvero parlarci. Come se volessero parlarci di qualche ansia, di qualche angoscia che, tra desiderio totalizzante e coscienza del niente, segna ogni corpo come il marchio di una condizione originaria.”
Oppure son le mani assai nervose della follia, vera e presunta che sia, come ad esempio le mani documentate negli scatti di grandi fotografi all’interno dei manicomi in Italia negli anno ’60: Gianni Berengo Gardin, Carla Cerati, Luciano D’Alessandro… Quelle mani che si ritrovano anche nei versi di Alda Merini ai tempi del suo internamento: “Viene il mattino azzurro / nel nostro padiglione: / sulle panche di sole / e di crudissimo legno /siedono gli ammalati, / non hanno nulla da dire, / odorano anch’essi di legno, / non hanno ossa né vita, / stan lì con le mani inchiodate nel grembo / a guardare fissi la terra.” Alfonso P
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