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IL CAMMINO DELL’UOMO E L’ARTE DELL’INCONTRO
Testo di Alfonso Pluchinotta
estratto dal Catalogo della Mostra
estratto dal Catalogo della MostraUn buon incontro ci trasforma, ci fa sentire diversi. Potersi incontrare e confidare l’uno nell’altro, ascoltando ognuno parole diverse, può cambiare le prospettive della nostra storia fino ad attribuire a essa nuovi significati. Sappiamo che senza gli altri, quelli che veramente contano, la nostra esistenza sarebbe impossibile, ma pochi considerano che senza gli altri sarebbe impossibile anche un giusto pensiero di noi stessi. “La vita, amico, è l’arte dell’incontro” è un verso di Vinicio de Moraes, che ci ricorda come nell’incontro abbiamo la possibilità di esercitare una vera arte, quella di ottenere il meglio di noi stessi.
Possiamo, ma anche dobbiamo, cogliere questo tipo di opportunità in quanto si tratta di un vantaggio reciproco che, in quanto tale, assume anche un significato etico. Infatti ogni “incontro possibile, non già necessario”, implica delle scelte responsabili che non possono essere date per scontate ma che richiedono la messa in opera di un decidere in piena libertà. Come per una buona amicizia, si può affermare che il buon incontro non dev’essere solo apprezzato in quanto tale (intenzionalità contemplativa), ma deve essere anche provato come fattore di trasformazione sociale (intenzionalità pratica).
Anche l’arte non dovrebbe solamente compiacere la nostra sensibilità, ma avere la pretesa di allargare le nostre esperienze di vita. E’ quello che ci siamo proposti di fare attraverso questa mostra di sculture, alcune fortemente espressive, altre didascaliche, altre da scoprire nel loro essere semiastratte. E non solo. Poiché nel presente siamo diventati “osservatori frettolosi” di tutto, abbiamo cercato di interessare il visitatore con tematiche coinvolgenti che predispongono alla sensibilità in un gioco artistico di immancabili emozioni. Siamo infatti convinti che le emozioni dicono quello che avviene in noi, nella nostra psiche, nella nostra interiorità, nella nostra anima. In definitiva le emozioni sono forme di conoscenza e forse – come afferma Ezra Pound – “senza emozione non vi è intelligenza”.
La scelta delle opere abbraccia un insieme di temi in dialogo tra loro: il cammino della vita, l’incontro, la relazione, la lontananza, l’attesa, l’empatia e la compassione. Il percorso espositivo intende offrire una visione dell’Uomo, che si vorrebbe più ampia e positiva, in contrapposizione a chiusure, indifferenza o disimpegno. L’opera d’arte scultorea si fa qui sollecitazione, introspezione, ricerca delle forme e dei gesti. L’arte plastica esalta la complessità dei volumi e richiama l’attenzione sul dettaglio, aspetto valorizzato dalla possibilità data ai visitatori di rigirare e toccare alcune delle opere in mostra. Soprattutto la figura umana a più dimensioni suscita osservazioni diverse, invita a riflettere sulla vita, le sue grandezze e le sue fragilità, più di quanto potrebbero le immagini bidimensionali di uso comune. Ci stiamo diseducando alla tridimensionalità, al tatto, alla durata che genera rappresentazione, avvertendoci così del rischio di diventare meno capaci di cogliere le disposizioni dell’animo e dell’affettività.
La mostra percorre diverse tematiche, tutte dense di concetti e meritevoli di approfondimenti. Nell’impossibilità di poterle trattare in breve, faremo solamente a alcune considerazioni.
CAMMINO – Per Eugenio Borgna il cammino quotidiano di ogni persona si rivela inquietamente simile al cammino dell’emigrante, caratterizzato dall’ignoto: “ […] noi andiamo continuamente incontro all’ignoto, alle infinite forme che l’ignoto assume nelle cose ultime della vita e della morte, e che in mille modi si manifesta nella nostra vita, e in quella degli altri. L’ignoto nasconde i nostri pensieri, e le nostre emozioni, e a volte appare improvvisamente nel volto di una persona, o nel mio volto, che si riflette in uno specchio, e che non mi è possibile riconoscere.” Un ignoto al quale vorremmo fare molte domande, senza poterci illudere di avere delle risposte.
AZIONE – L’agire individuale che costruisce, che inizia e re-inizia (qualche inizio parte anche dalla fine di qualche altro inizio), è un concetto ripreso più volte da Luce Irigaray che più specificatamente parla di un costruire il tra-due, lo spazio di un cammino, un passaggio, un ponte…: “ […] tale spazio che proviene dal ritegno dall’altro o verso l’altro esige da noi rispetto, ma un rispetto che dovrebbe essere non reticente ma operativo, un motivo di trasformazione di tale spazio che dovrebbe condurre ad una sorta di cammino, di passaggio, ad un ponte che si stabilisce tra l’uno e l’altro, una costruzione tra-due. Occorre preparare le vie che ci consentano di andare verso l’altro e inoltre di ritornare a noi stessi, favorire tragitti e luoghi in vista dell’incontro che preservino la singolarità di ciascuno e non aboliscano il due in un’unità definitiva, quindi senza vita, fittizia.“1
Per questo non è sufficiente solo il desiderio di incontrarsi, ma vi deve essere pure la determinazione a superare le difficoltà e persino correre il rischio che non ci sia nessuno ad aspettarti o a corrisponderti.
INCONTRO – Vi sono diversi modi di incontrarsi. Un tipo d’incontro è quello capace di suscitare in noi una reazione moderata e spassionata: osserviamo l’altro così come si presenta, mettendo insieme i vari elementi, facendo le nostre considerazioni, giudicando a livello puramente cognitivo senza farci coinvolgere emotivamente. Un altro tipo d’incontro è invece quello in cui l’altro ci colpisce, agisce sui nostri impulsi volitivi, così che, oltre a concentrarci sulla sua persona, ci occupiamo delle nostre reazioni interiori nei suoi confronti. Si potrebbe affermare che il primo tipo ci porta di più a conoscere l’altro, mentre il secondo ci aiuta a conoscere meglio noi stessi. Solo in questo caso i tempi della conoscenza si allungano, le relazioni diventano più complesse e, per quanto meno istintive, comportano molti più vantaggi ma anche incertezze ed errori.
Tra il disinteressarci dell’altro e il desiderio di comprenderlo attraverso la sua apparenza esterna, tra il minimo e il massimo d’interessamento, c’è una serie infinita di gradi intermedi che costituiscono i livelli d’intensità dell’ascolto. In ogni caso, ogni vero incontro ha una sua tensione, una sua capacità di agire, che lascia una traccia che ci cambia, sia pure in maniera impercettibile.
CONTATTO – Toccare é senza dubbio l’aspetto non verbale più universale nelle interazioni interpersonali. Il contatto con l’altro suscita il riconoscimento della propria esistenza, la volontà di andare avanti, di aprirsi al mondo, esprime il desiderio di entrare in contatto profondo con chi si ha di fronte, di accarezzare il viso di chi si ama, o più semplicemente la mano di un anziano, di un amico, di un bambino. Sono attimi unici e irripetibili nei quali c’è uno scambio di emozioni forti fra chi accarezza e chi riceve la tenerezza del tocco. Sono situazioni in cui le parole non riescono a esprimere le proprie sensazioni e forse potrebbero suonare come una stonatura e rovinare l’incanto.
Nessuno tocca mai semplicemente l’altro, ma solo e sempre ci si tocca. Infatti, a differenza di altri sensi, il tatto necessita di con-tatto. Attraverso il con-tatto sentiamo simultaneamente sia il nostro corpo che qualcosa o qualcun’altro essere senziente. Perciò, il tatto è la piega tra noi stessi e ciò che è altro da noi, ed è solo attraverso questa zona di intimità che è possibile il sentire. Il tatto è il senso che più di ogni altro può essere considerato il trait-d’union fra corpo e mondo, Sé e Altro, pensiero e percezione, materia e spirito.
ABBRACCIO – L’abbraccio è la ricerca di un luogo per il riconoscimento, di uno spazio per la disponibilità, ma anche per la tenerezza, e la condivisione. Il desiderio di incorporare l’altro con una stretta che lo racchiuda come fosse una parte di noi stessi, come nell’abbraccio di protezione, quando si vuole trasmettere sicurezza e fiducia; come in quello di affidamento del bambino, che desidera essere abbracciato dai genitori; come nell’abbraccio di abbandono degli innamorati e nell’abbraccio di riconciliazione per esprimere la comunione ricostruita. E poi vi sono gli abbracci carichi di emozioni, quando dopo anni si rivede una persona cara, quelli della nostalgia, quelli del rimpianto. Abbracci che ci esprimono fisicamente, ma che anche sono capaci di suscitare pensieri e di divenire comunicazione a tutti gli effetti.
Gli abbracci più sinceri sono silenziosi e prolungati a seconda delle circostanze. Difatti l’incontro tra due persone che si considerano e si desiderano ha valore non solo per le cose che riescono a dirsi, ma per quelle che lasciano agire dentro se stessi. Il mondo greco aveva intuito il valore antropologico di quel silenzio dove il sentire è fatto di parole senz’ali, che agiscono senza far rumore, che maturano in contesto di ponderazione, contrapposte alle comuni parole alate, quelle che noi gettiamo a tutti i venti senza riflettere sulle conseguenze.
CAREZZA – Scrive Rilke nelle Elegie duinesi: “Lo so, / vi toccate beati cosi, perché la carezza trattiene, / perché non svanisce quel punto che, teneri, / coprite; perché in quel tocco avvertite / il permanere puro”. 2 In questi versi Rainer Maria Rilke si ricollega a quanto da lui scritto in precedenza in un saggio sulle mani di Rodin: laddove due corpi si toccano ne nasce un altro, un terzo corpo intangibile che va oltre il me e il te e li accoglie: “Una mano che si appoggia su un’altra spalla o su un’altra coscia non appartiene piu totalmente al corpo da cui proviene; da essa e dall’oggetto che tocca o che afferra nasce una cosa nuova, che non ha nome e che non appartiene a nessuno”. 3
E poi le carezze, a partire da quelle materne , capaci di comunicarci l’esperienza più orientatrice che esista: la fiducia fondamentale nella bontà della vita; la fiducia che, in fondo, nonostante le numerose distorsioni, tutto ha senso; la fiducia che è la pace, e non un incubo, la realtà più vera… Nella carezza vi è sempre un enigma difficile da decifrare.
ATTESA – La qualità degli incontri può essere condizionata sia dall’isolamento che dalla solitudine, ma in maniera del tutto diversa. L’isolamento, o la paura di restare soli, provoca la frenesia per incontri e relazioni talvolta poco significativi. Per di più, se in passato ci si sentiva meno soli di adesso perché le persone erano più prossime le une alle altre e mostravano più empatia, sembra che oggi tutti siano in contatto con tutti, ma al tempo stesso ognuno fa più fatica a fare spazio agli altri. Si è più connessi e si è persino contenti della moltitudine attorno a noi che ci stordisce e anestetizza, anche se in definitiva ci opprime con il suo conformismo, i suoi schemi preconcetti, le sue mode…
Qualcuno ha detto che per crescere occorre attraversare periodicamente, o avere attraversato, scenari di solitudine. Attraversare la solitudine non vuol dire abbandonarsi alla malinconia o alla tristezza, ma recuperare interezza e unicità. Infatti la solitudine è innanzitutto uno stato mentale, e solo poi anche fisico, dove l’individuo impara ad ascoltare i rumori dei propri pensieri, a distinguere i colori dei propri comportamenti, a elaborare con coraggio la profondità delle proprie emozioni, per andare oltre, per calibrare la propria personalità in modo da vivere tempi e spazi proficui in sintonia con e per gli altri. Scrive Kahil Gibran: “Se ti nascondi nel mio cuore non sarà difficile trovarti. Ma se ti nascondi dietro il tuo guscio, sarà del tutto inutile che chiunque tenti di cercarti”4.
AIUTO – L’uomo in attesa di qualcosa che cambi può essere anche colui che chiede aiuto, che implora. L’implorazione si effettua attraverso il volto e la mano. Ogni volto è svelamento ma al tempo stesso segretezza, storia del corpo e delle emozioni, Il volto di un uomo sofferente è portatore di un’attesa, ed è tale attesa che, preliminarmente, mette in moto l’intera storia del rapporto tra chi ha bisogno di aiuto e chi lo soccorre. Su un volto sofferente si può leggere talmente tutto, o almeno credere che vi si possa leggere tutto, perché è qualcosa che comunque ha una sua luce propria.
Il volto è il luogo dell’incontro, là dove si svolgono tutte le dinamiche dell’uomo, dall’amore tra due persone alla guerra, alla pace. Anche se istintivamente l’incontro con un volto diverso provoca in noi il desiderio di fuggire, il soffermarsi sul volto dell’altro stabilisce la relazione che è responsabilità e condivisione. Emmanuel Lèvinas parla di epifania del volto, intendendo il momento della scoperta, della rivelazione della presenza dell’altro, con tutto il suo universo interiore, con tutta la sua umanità. “Ogni giorno siamo circondati da sciami di attese” – scrive Eugenio Borgna – quelle delle persone che ci chiedono l’aiuto di una parola, di uno sguardo, di un semplice gesto di riconoscimento. Segni che può essere difficile riconoscere, che non debbono essere posti tutti sullo stesso piano, ma che possono avere un denominatore comune nella sofferenza umana e nel bisogno affettivo.
COMPASSIONE – L’empatia e la compassione sono due entità vicine ma distinte tra loro. L’empatia è stata oggetto di numerosi studi, ma ci piace soprattutto ricordare il pensiero della filosofa tedesca Edith Stein, che definisce l’empatia l’atto mediante il quale la persona si costituisce attraverso l’esperienza del rapporto con l’altro, “come se” fosse l’altro: “[…] lo stato di empatia, dell’essere empatico, è il recepire lo schema di riferimento interiore dell’altro con accuratezza e con le componenti emozionali e di significato ad esso pertinenti, come se una sola fosse la persona e senza mai perdere di vista questa condizione di come se. Significa perciò sentire la ferita o il piacere di un altro come lui lo sente, e di percepirne le cause come lui le percepisce, ma senza mai dimenticarsi che è come se io fossi ferito o provassi piacere e così via. Se questa qualità di come se manca, allora lo stato è quello dell’identificazione”5 .
E’ capace di umiltà solo chi é consapevole della sua origine, fatta di fragilità e di grandezza. Anche nella fragilità, […] si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi. Sentimenti ed emozioni forti che ritroviamo anche nella parabola del Figliol Prodigo, che abbiamo voluto raffigurare nella copertina: essa non è un episodio ma la metafora di un ritorno ai sentimenti sofferti, che si ripete più volte e in forme sempre diverse.
La sfera interiore è piuttosto complessa anche perché vissuta a diversi livelli, in cui trovano spazio le relazioni di accoglienza e di rispetto, ma anche altri atteggiamenti di cui faremo solo qualche accenno: empatia, come capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui; compassione, anch’essa come coinvolgimento emozionale ma anche maggiore partecipazione intenzionale al dolore dell’altro allo scopo di alleviarlo; misericordia, come moto dell’anima con il quale riusciamo a vedere l’altro al di là degli errori e delle cadute, e di accoglierlo totalmente al fine di riportarlo alla sua natura più originaria.
ADDIO – Nelle relazioni umane che finiscono l’assenza di qualcuno non è mai un vero nulla. Il posto lasciato vuoto da coloro che se ne vanno è il segno di qualcosa che manca, ma in realtà il posto non è mai lasciato del tutto vuoto, perché rimane quello che si rimpiange o che si attende di nuovo. Infatti l’assenza rende più acuta la presenza di persone che c’erano e che non ci sono più, come nei versi di Eugenio Montale: “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / ed ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.”6
Soprattutto nel tramonto della vita, le forme dell’assenza, della distanza, dell’abbandono sono innumerevoli in quanto non solo fisiche ma anche emozionali. In molte situazioni, anche diverse tra loro, dal commiato alla morte, potrebbero valere i versi di Ezra Pound: “Perché quello che veramente ami rimane […] Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che veramente ami è la tua vera eredità”7. Se saprai custodirlo.
Si sa che le prime carezze alla nascita sono particolarmente importanti. Alla stessa maniera lo sono le ultime alla fine della vita. “Chiudimi pure gli occhi / con le tue care mani! / Sotto le tue mani / si placa ogni mio tormento. / Il dolore, quasi a ondate, / dolcemente s’attenua: / ancora un’ultima stretta, / e già tu colmi il mio cuore” (Theodor Storm)8.
Un abbraccio, quindi, che unisce due regni, quello terreno e quello dei morti, di cui parla Rilke in una lettera a Cézanne: “La morte é il lato della vita rivolto altrove da noi, non illuminato da noi”: dobbiamo cercare di attivare la più grande coscienza della nostra esistenza che abita in entrambi i regni indelimitati, nutrita inesauribilmente da entrambi […]”.9
EPILOGO – Abbiamo sfiorato appena tematiche che meriterebbero ben altra collocazione. Speriamo di aver raggiunto la finalità che ci eravamo proposti: ossia che l’incontro (quello che ci cambia), il contatto (quello che suscita le nostre emozioni), l’empatia (dalla compassione alla pietà) possano realizzare il superamento del bisogno di umanità, al limite il superamento delle immancabili ingiustizie sociali e delle condizioni di miseria fisica e morale, attraverso una motivata condivisione del quotidiano e l’attenzione verso l’Altro nella convinzione che egli possa cambiarci e arricchirci. Concliudiamo con le parole di Paul Valèry: “Mettiamo ciò che di meglio abbiamo in comune e arricchiamoci delle nostre rispettive differenze”.
1 L. Irigaray Condividere il mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, p.116
2 R.M. Rilke, Elegie duinesi, Einaudi, Torino 1978, p. 13.
3 R.M. Rilke, Rodin, SE, Milano 1985, p. 34
4 K. Gibran, Il profeta. Sabbia e schiuma, Giunti, Firenze 2016, p. 100.
5 E. Stein, Il problema dell’empatia, Studium, Roma 1985
6 E. Montale, Satura, Milano, Mondadori, 1971.
7 E. Pound, Cantos, LXXXI, 128, in Id., Canti pisani, Garzanti, Milano 2015.
8 T. Storm, Sotto le tue mani, in G. Davico Bonino, Poesie d’amore per un anno, Einaudi, Torino 2003, p. 299
9 R.M. Rilke, Lettere su Cézanne e sull’arte come destino, Pendragon, Bologna 1999, p.106
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