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Tra le opere della sezione “Compassione”, mi ha colpita un altorilievo in bronzo, che rappresenta un incontro preciso, quello con la malattia e i suoi effetti, fisici e psicologici.
Qui la malattia è la peste, i protagonisti gli appestati e San Carlo, l’incontro il faccia a faccia con la disperazione. E’ una scena di straordinaria economia, il cui peso gravita tutto nella parte inferiore: ai lati due figure in preda al terrore reagiscono una nascondendosi, l’altra fuggendo. Al centro, altre due figure, ridotte ormai a corpi ischeletriti, si avvicinano a San Carlo, in ginocchio davanti a loro. Il lato psicologico è evidenziato dalle pose, dal rilievo a tratti tremante, dalle ombreggiature, dai corpi sconfitti dal male. Ad unire la composizione è il senso di consapevolezza, che ogni figura fa proprio in un modo diverso, dell’inesorabilità di quanto accade: c’è chi distoglie lo sguardo e chi resta. Da questo, dalla partecipazione intima all’evento, nasce la compassione. Essa non coincide con la speranza, che guarda oltre e, così facendo, solleva. Essa, piuttosto,“mette in ginocchio”: solo così può condurre fin dentro alla sofferenza. Immagino il farsi del silenzio tra le pieghe dei rilievi e penso che la compassione sia il segno luminoso del mistero della presenza, del bene che possiamo fare gli uni agli altri, anche nelle situazioni estreme, che rendono inutili le parole e superflui i gesti. Sabina P.
Nella sezione “Attesa” della mostra si trova una scultura dedicata a “Penelope”: quale figura poteva raffigurare, proprio nel senso di “dare figura”, l’attesa se non lei? Eppure, da una scelta che appare scontata in partenza, davanti a lei sgorgano emozioni e pensieri nuovi. Penelope, nella mia mente una donna invecchiata, taciturna, immancabilmente assisa al suo telaio, appare qui giovane, femminile, solidamente dolce, custode di un pensiero forte, pronto a farsi azione. E’ sì la moglie di Ulisse, ma anche, e soprattutto, regina, la regina di Itaca. Alla partenza del marito e per tutti i dieci anni successivi, l’attesa diverrà per lei esperienza esistenziale. Penelope saprà anche renderla vitale: non la disperderà in incertezza, esitazione, debolezza, passività. “Non è lecito il pianto”, ammonisce un disegno di Campigli esposto in mostra, non a caso abitato solo da donne. Penelope è tutte queste donne insieme: trasforma in impegno il pianto della lontananza, difende dagli avversari il potere di Ulisse, regna con ferma volontà su Itaca, cresce e prepara il figlio Telemaco, non soccombe al sacrificio, non disfa il ricordo, annoda il presente, tesse il futuro. Penelope fila il Tempo, senza subirlo. Insegna che “attesa” è saper attraversare l’ombra di ciò che deve ancora manifestarsi. E’ lei a dare significato alle peregrinazioni di Ulisse: lei a riconoscerlo, lei a garantirgli Itaca come“patria”, lei a fare dell’attesa la condizione per il suo ritorno a regnare. Laura A.
Quello che io vi vedo è soprattutto un viandante che si ferma per riposare ma anche per riflettere. In effetti, non si cammina solo fisicamente, ma anche con la mente, con i pensieri, con il cuore, con le emozioni, con i sentimenti. Tutto in noi è un procedere, lungo una strada che è il cammino della vita. «Camminando si apprende la vita, camminando si conoscono le persone, camminando si sanano le ferite del giorno prima. Cammina, guardando una stella, ascoltando una voce, seguendo le orme di altri passi» (Ruben Blades). Non camminare significa non apprendere, non conoscere le persone e la vita, non conoscere se stessi, non rischiare, non guarire.
È il camminare dell’“interiorità”: condizione di apertura, di scoperta, di caduta e di solitudine; condizione che rende vivi e che trasforma. Atto che permette di lasciare la propria orma: «Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi» (Italo Calvino) perché infatti il cammino ha il carattere di ciò che è infinito ed eterno, di ciò che apre al Mistero.
Il cammino si fa camminando, la strada si apre camminando, Quale strada? Conoscete la storia del sasso? La persona distratta vi inciampa. Quella violenta, l’usa come arma. L’imprenditore l’usa per costruire. Il contadino stanco invece come sedia. Per i bambini è un giocattolo. Davide uccide Golia e Michelangelo ne fa la più bella scultura. In ogni caso, la differenza non la fa il sasso, ma l’uomo. Non esiste sasso nel cammino che non si possa sfruttare per la propria crescita. O forse anche esiste, ma molto dipende comunque da noi. Nunzio G.
L’arte può suscitare emozioni momentanee più o meno fruttuose, o favorire sentimenti che hanno già un terreno predisposto a coglierli, o anche aprire finestre di interpretazione, per lo più arbitrarie ma sempre suggestive. Non so se intenzionalmente, ma di queste finestre il curatore della mostra ne ha aperte tante, tra cui quella del freddo, una metafora a cui bisognerebbe dare lo stesso peso di quella del calore.
La piccola scultura Chula (Gelo) inserita nella Sezione del Cammino, potrebbe avere un grande significato, maggiore di quello che sembrerebbe: notte dei sentimenti, indifferenza delle persone, chiusura in sè stessi, persino il ritorno al buio e al freddo quando ci viene a mancare la luce dell’amore e il calore della tenerezza.
Potrebbe essere il freddo nel mondo che ci circonda – come scrive Wystan Hugh Auden – «Bisognosi anzitutto / di silenzio e di calore, produciamo / freddo e chiasso brutali». Ma il Grande Freddo è quello dell’angoscia così intensamente emotiva di chi soffre, un gelo che si può sciogliere solo con l’ascolto, quello del silenzio. Di quel silenzio dell’angoscia, della sofferenza più interiore, dell’affanno di un cuore infreddolito che si riveste di ruvidi panni per non lasciare intravedere il suo dolore, come nei versi di Alfred Tennyson: “Mi sembra talvolta quasi peccato / esprimere in parole l’affanno ch’io sento; / perché le parole a metà solo rivelano l’anima profonda, / e a metà la nascondono; come fa la Natura. / […] M’avvolgerò in parole come in negre gramaglie, / come in ruvidi panni a difesa del freddo; / ma di quel gran dolore che questi avvolgono / solo i contorni appaiono e nulla più”.
Una poesia che sembrerebbe fatta a misura di questa piccola scultura. Chissà se gli abbracci potrebbero essere talmente caldi da porre fine al freddo di alcuni grandi inverni dentro? Se basterebbero a scaldarci come in una incubatrice o in una serra, e farci maturare, “sbocciare appieno” come nei versi di Blaga Dimitrova: “Hai freddo?” mi hai chiesto / e mi hai stretto in un abbraccio. / In te rannicchiata con fiducia, / sono sbocciata appieno. E quali / canti d’uccelli d’oltremare ho udito! / Venti del sud iniziavano a soffiare. / E come un’amarena, ancora intimidita, / ho dato via i miei colori”. Sebastiano P.
La donna (la stessa artista) abbraccia il marito che sta per morire, che se ne sta andando per sempre. E’ un’opera piccola ma so che l’artista vi ha messo quasi due anni per completarla, forse perchè è difficile rendere in maniera semplice un argomento così difficile. Penso vi sia comunque riuscita e, anche se non so fare un vero commento, recupero qualche mia riflessione.
Heinrich Heine sintetizza la morte in quella manciata di terra gettata sul viso nella cerimonia della sepoltura «che sembra spegnere per sempre le nostre domande», mentre Gesualdo Bufalino la descrive come una chiusura lampo che fulmineamente richiude lo squarcio di luce della vita. Espressioni che rifiutano il mistero, ma che comunque, per il fatto stesso di estremizzarlo, non lo negano. Mistero che i versi di Emily Dickinson descrivono in maniera egregia:
Questo mondo non è conclusione. / C’è un seguito al di là – / invisibile, come la musica – / ma forte, come il suono – / accenna, e quindi sfugge – / filosofia lo ignora – / è l’intuizione / che deve alfine penetrar l’enigma.
L’“intuizione per penetrare l’enigma” di cui parla la poetessa fa parte di quel senso del sacro e della trascendenza che vi è in ogni uomo e che è al di sopra del senso religioso. Scrive Margherita Guidacci: «Quanto di te sopravvive / è in un altro luogo, misterioso, / ed ormai reca un nome nuovo / che solo Dio conosce […]». Un nome che solo ci verrà svelato nell’estremo instante.
Dove andremo? Come dice Wisława Szymborska «chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte». La mia piccola risposta a questa grande domanda è simile all’epigrafe posta sulla tomba del poeta mistico Rumi: «Non cercare la mia tomba sulla terra. La mia tomba è nel cuore di coloro che amano». Il calore dei cuori che abbiamo avvicinato con la sincerità del nostro amore è certamente più suggestivo della fredda prospettiva di un marmo. Ci piace così immaginare che la nostra bocca non verrà chiusa da una manciata di terra, ma ancora potrà recitare un ultimo verso. Potrebbe essere il verso finale della Divina Commedia di Dante Alighieri; oppure quello finale di un’opera di Thomas Stearns Eliot, che è stato anche il motto di Maria Stuarda, ossia In my end is my beginning; oppure quello che chiude una poesia di Dylan Thomas: «E rapito alla fine (cara fine) nelle sue braccia dalla luce, / io posso senza timore /reggere la prima visione che diede fuoco alle stelle». Alfonso P.
Questa scultura, molto enigmatica, riesce sempre a catturarmi. Assenza o presenza? Come avviene per il silenzio, l’assenza non cessa mai di coinvolgere il suo opposto e di richiederne l’esistenza, ossia la presenza. Nelle relazioni umane che finiscono l’assenza di qualcuno non è mai un vero nulla. Il posto lasciato vuoto da coloro che se ne vanno è il segno di qualcosa che manca, ma in realtà il posto non è mai lasciato del tutto vuoto perché rimane quello che si rimpiange o che si attende di nuovo. Le forme dell’assenza, della distanza, dell’abbandono sono innumerevoli, non solo fisiche ma anche emozionali. In molte situazioni, anche diverse tra loro, dal commiato alla morte, potrebbero valere i versi di Ezra Pound: «Perché quello che veramente ami rimane […] Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che veramente ami è la tua vera eredità». Ovviamente, se saprai custodirla…
Ecco quindi che l’assenza può divenire egualmente presenza, sia pure emozionale. È quello che percepiamo quando vediamo una sedia vuota dove una volta c’era qualcuno, o un vestito indossato da qualcuno in una particolare occasione, un luogo dove qualcosa d’importante è successo… Geniale questo artista che lo ha saputo esprimere con tanta efficacia! Everolimus
In mostra mi hanno affascinato diverse sculture, ma anche mi ha sorpreso che ci fosse una sezione dedicata all’attesa, con delle osservazioni nelle didascalie veramente rivelatrici. Ad esempio, fare attendere è un modo di esercitare il potere su chi attende. Vorrei tuttavia aggiungere qualcos’altro, anche per aver letto alcune considerazioni fatte da Nunzio Galantino in “Abitare le Parole”. La parola “attesa” non fa riferimento solo al tempo che trascorre, appunto, nell’attesa ma descrive anche sia l’atto di attendere sia i sentimenti che affollano nel frattempo il cuore di chi attende. L’atto di attendere (dal latino ad-tendere, ossia essere orientato a…) riempie di significato il tempo rendendolo intenso perché orientato a un evento. Quanto più forte è il sentimento che accompagna l’attesa di un evento tanto più il tempo dell’attesa apparirà lento e irrequieto. Ma non sempre è un’attesa che si presenta a mani vuote – come qualcuno dice – perché tocca a noi riempirle, tocca a noi vivere trasformando l’attesa in occasione feconda per scorgervi direzioni, implicazioni, possibilità, conseguenze e risultati.
Penelope, sinonimo di fedeltà e di amore, con la sua immobilità statuaria, anche se molto espressiva nel gesto, è l’icona di una “attesa non creativa”. Diversamente da Ulisse, pur coltivando la speranza, il desiderio e l’amore, allontana ogni possibilità di cambiamento, novità (persino di tentazione) e sperimenta solo ciò che già conosce. Mettendosi al riparo dall’ansia dell’attesa, blocca la propria vita. Ulisse al contrario, agisce, opera, vive, (tradisce), affronta l’ignoto. Nella relazione di amore non è sempre facile vivere l’attesa. Ancora più difficile è sapere che probabilmente l’altro/a non verrà mai. Ma la grande impresa di vivere l’attesa, parte dal non facile presupposto di avere la capacità di «portare dentro di sé l’altro/a». Ovvero il sentire la presenza dell’altro/a nell’intimo, nel cuore, nella mente, nello spirito, nel respiro. Solo allora l’attesa rende capaci di sperare senza paura del domani. Giorgio B.
Una mostra rara e con scelte qualitativamente interessanti. Al suo interno i visitatori si muovono silenziosamente, sfilano davanti alle opere, se ne lasciano catturare. Coinvolge lentamente, un po’ sorprende, senza inseguire nient’altro se non i fili invisibili che legano gli incontri. Ottima la scelta di Campigli, le cui raffigurazioni dispongono al riconoscimento di questa trama invisibile. L’opera che vorremmo mettere in rilievo è l’Ispirazione di Raoul Larchè: l’incontro e l’abbraccio ci sembrano indisgiungibili dalla capacità di percepire e la disposizione a mettersi in ascolto. Non si può vivere senza ricordare e non si può vivere senza dimenticare: la mostra è una bella occasione di ripensare al valore da dare a ciò che viviamo. Giampaolo e Daniela M.
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